Un’altra azienda italiana finisce in mano agli stranieri: ma sono davvero più bravi?

Come riportato da diversi organi di informazione tra cui il Corriere della Sera on-line al link http://www.corriere.it/economia/14_luglio_11/indesit-passa-americani-merloni-vende-60percento-758-milioni-b83b69dc-08c3-11e4-89ec-c067e3a232ce.shtml si apprende che Indesit, storica azienda italiana produttrice di elettrodomestici, è stata acquisita nei giorni scorsi dalla americana Whirlpool.

Questo è cronologicamente solo l’ultimo caso in cui una grande azienda della nostra Penisola e i relativi brand vengono rilevati da una multinazionale estera. Altri casi si sono registrati nel settore Food, Wine, Fashion e Arredo & Design, categorie merceologiche in cui l’Italia e gli italiani sono stati sinonimo di eccellenza in diverse occasioni. Sarà interessante vedere se e come i nuovi manager sapranno valorizzare al meglio gli asset acquistati e su cui andranno ad investire ma sarebbe utile che tutti noi ci interrogassimo sulle ragioni che spingono l’investitore/l’imprenditore italiano a cedere il passo all’investitore straniero vendendo ciò che la sua famiglia ha costruito in decenni di storia e di sacrifici: stanchezza, miopia o difficoltà nel change management? Ambiente ostile all’impresa nazionale e friendly quando questa conclude accordi con le imprese straniere che la acquistano? Cultura o vincoli? Oppure è tutto questo che induce gli imprenditori italiani a mettere in vendita gli asset aziendali perché percepiscono che  in Italia non ci sono più le condizioni necessarie per fare impresa?

Sicuramente la “fuga” di brand dall’Italia è un problema e molto probabilmente ciò si tradurrà per il nostro Paese in una perdita economica e di valore non indifferente nel medio-lungo periodo. Certo è che non abbiamo molto tempo per poter rimettere in sesto un sistema industriale che impoverendosi non crea e non creerà occupazione. La fuga dei cervelli unitamente alla fuga delle imprese lasciano il paese più povero, chiuso in istanze rivendicative di piccolo cabotaggio, non in grado di ipotizzare il futuro. Questo in termini generali. C’è poi la necessità per le nostre imprese di guardare oltre e di “reinventarsi” con innovazioni di prodotto e di processo che, partendo dagli asset storici, siano in grado di cogliere le sfide che i cambiamenti che stiamo vivendo lanciano non solo a loro. In tutto ciò anche le tradizionali relazioni tra il “capitale e il lavoro” dovranno essere ripensate con un maggiore coinvolgimento dei lavoratori nel “destino dell’impresa”, sia nei momenti di crisi, sia, se lo sforzo di entrambi produrrà ricchezza e valore, nei momenti belli a venire.


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