SMART WORKING: una moda o una esigenza? Riflessioni su un tema caldo da fare a mente fredda.

Nelle ultime settimane sentiamo spesso parlare dello Smart Working: è una moda, una esigenza, un problema o una opportunità?

Nomesis ha fatto una riflessione, sintetizzatsmart working 2017a in tre punti, con i Responsabili HR delle aziende Clienti per condividerla con tutti coloro che sono interessati a capire un po’ di più di questa nuova forma di lavoro (ma forse tanto nuova non è) che oggi ha una normativa che la rende possibile.

Primo punto: di cosa stiamo parlando?

L’osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano lo definisce come “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”.

Quando parliamo di Smart Working ci riferiamo quindi ad una organizzazione del lavoro che dà alle persone la possibilità di auto-organizzarsi nel dove-come-quando realizzare la propria prestazione. Sottolineiamo però che chiamare tutto questo “Smart” parte dal presupposto che i lavoratori siano in grado di farlo (principio di responsabilità) e le imprese di permetterlo (capacità organizzative aggiuntive per individuare processi che mettano in linea delega-controllo-valutazione in modo diverso dai tradizionali management models).

Secondo punto: è una moda o una esigenza?

Come è evoluto lo Smart Working in Italia negli ultimi anni?

Nel 2016 contabilizziamo circa 250 mila (su un totale di 22 milioni di lavoratori, cioè l’1,13%) che utilizzano questa tipologia di lavoro. Anche se potrebbe sembrare poco, rappresenta un 40% in più rispetto al 2015. Da questa cifra, si evince che:

  1. Il 69% degli Smart Workers sono maschi (la media di età è di 41 anni)
  2. Il 52% lavora nel nord d’Italia

Questa modalità di lavoro è più frequente nelle Grandi Aziende (il 30% di esse segue dei programmi di lavoro agile), piuttosto che nelle Piccole e Medie (con un 5% di utilizzo).

Potremmo dire che più che una moda è un trend. Per quanto limitato si è consolidato nel tempo, quindi risponde alle esigenze di lavoratori che intendono flessibilizzare la propria vita da un lato e delle aziende che desiderano valorizzarne il contributo anche con forme di lavoro alternative.

Terzo punto: è un problema o una opportunità?

Se vogliamo vedere le opportunità possiamo parlare dei vantaggi dello Smart Working?

Come tutti i cambiamenti per il suo corretto sviluppo richiede l’instaurarsi di giochi win-win tra gli attori, in cui tutti possano ottenere il risultato che auspicano.

I dati e le informazioni (poche) che si possiedono sono univoci nell’indicare la direzione:

  • l’azienda ottiene con lo Smart Working un aumento della produttività, la riduzione dell’assenteismo e di straordinari, ovvero una diminuzione dei costi;
  • i lavoratori, con una maggiore flessibilità tra dove-come-quando, hanno una maggiore possibilità di bilanciare i propri tempi di vita, una maggiore autonomia e libertà potrebbe tradursi (il condizionale è d’obbligo) in un aumento di motivazione, soddisfazione e miglioramento del clima aziendale.

Se vogliamo capire il problema che può generare dobbiamo però uscire dalla logica edulcorata che mostra lo Smart Working come la soluzione alla relazione impresa-collaboratori perché potrebbe tradursi in un boomerang per entrambi gli attori.

  • Partiamo dai lavoratori:
    • lo Smart Working è ambito dalle donne che hanno famiglia nonostante oggi il 69% dei fruitori sia di genere maschile: le ricerche dell’Osservatorio Nomesis sul Genere ci dicono che sono le donne a vederlo come una possibile soluzione del “doppio ruolo”; scegliere il dove-come-quando permette loro di svolgere la duplice funzione di donna lavoratrice e madre. Le chiude però per molto tempo all’interno delle pareti domestiche (quando possono scegliere come luogo di lavoro la propria abitazione): siamo proprio sicuri che questo possa aiutare le donne a crescere nei ruoli apicali? E quando se ne accorgeranno (dopo un po’ di tempo che fanno “Smart Working”) ci saranno le condizioni per rientrare nei percorsi di carriera? Questo vale per le donne ma può valere anche per gli uomini. Lo Smart Working sottrae al contatto e tutti noi sappiamo cosa voglia dire il contatto e le relazioni nello sviluppo professionale;
    • potrebbe essere un problema quando lo Smart Working riguarda lavori molto specifici e parcellizzati. Non è la stessa cosa farli “da casa” e farli “in azienda” oppure farli in “spazi di co-working liquidi” piuttosto che in uffici stabili. Il passaggio della conoscenza, la comprensione dei processi organizzativi è collegata intimamente anche alla prossimità e alla socializzazione informale (la classica macchinetta del caffè), che non si ripeterebbe con le nuove forme di lavoro;
    • sentirsi parte e socializzare: non è solo una questione di lavoro. Il lavoratore è un animale “sociale” come tutti gli esseri umani. Per quanto le adesioni ai gruppi possano essere collegate al proprio modo di vivere, quindi se viene meno il gruppo di lavoro può esserci un gruppo amicale che si trova a bere il caffè insieme, il senso di efficacia che sottende le relazioni di lavoro è difficilmente ripetibile nei reticoli in cui sono prevalenti le “affinità elettive”;
    • l’auto-organizzazione del lavoro è possibile quando le persone si sanno auto-organizzare, quindi gestiscono i tempi e le task con “competenza”, questo significa che non è un lavoro per tutti, anche che dopo la prima entusiastica adesione (quando si vedono solo i vantaggi) la delusione e il disincanto (prevalgono i problemi) possono indurre il lavoratore a ridurre sensibilmente il suo engagement;
    • chiudiamo i problemi con una domanda: siamo proprio sicuri che i lavoratori vogliano auto-organizzare il proprio lavoro?
  • E ora l’impresa: chi fa il nostro mestiere di consulenza in ambito strategico e organizzativo, sa come le imprese entrano in questi “tunnel dell’innovazione organizzativa”, in genere leggono qualche articolo sul “il Sole 24 ore” oppure ne parlano con qualche consulente o partecipano a seminari nella propria associazione e poi si dividono in due: quelle che abbracciano la nuova “filosofia manageriale” senza se e senza ma e quelle che invece ne prendono le distanze. Nessuna arriva allo Smart Working (ma anche ad altre scelte, si veda i piani di Welfare aziendale) attraverso un reale percorso di problem solving strategico in cui la domanda da porsi dovrebbe essere: “quali sono le forme di lavoro più adatte per cogliere le sfide che abbiamo di fronte?” e da questo ragionamento far discendere la scelta di individuare lavori da realizzare attraverso lo Smart Working. Ci arrivano spesso in modo più o meno approssimativo: il ruolo della consulenza dovrebbe infatti essere quello di inserire razionalità e metodo che permetta di prendere (anche sullo Smart Working) una buona decisione utile all’impresa. Per questo, come Nomesis, anche quando una soluzione ci piace, mettiamo il decision maker aziendale di fronte ai problemi. Il nostro intento è quello di far sì che le imprese facciano scelte essendo consapevoli, delle opportunità da un lato ma anche dei problemi e della complessità che le scelte implicano, dall’altro lato.

Lo Smart Working va trattato con attenzione, funziona se ci sono collaboratori e manager che hanno sviluppato già a monte giochi cooperativi, in grado cioè di fidarsi dal punto di vista professionale e umano. Detto ciò, anche se sussistesse questo pre-requisito, quali possono essere i problemi che attendono le imprese? Li esponiamo in modo volutamente didascalico, tenuto conto che il problema dei problemi è comprendere quali sono le posizioni e i ruoli, i processi organizzativi che possono utilizzare lo Smart Working. E’ il problema più grande perché implica individuare da un lato chi ne potrà beneficiare e chi no, dall’altro lato individuare le modalità alternative per realizzarlo. Da ciò discende una serie di problematiche che devono essere affrontare se si vuole implementare uno Smart Working veramente Smart:

  • mantenere l’integrità della struttura organizzativa: come mantenere l’integrità dell’organizzazione che si basa sui flussi formali e informali di dati-informazioni-conoscenze-procedure e pratiche, a fronte di una scelta in cui una parte dell’organizzazione segue regole diverse, in luoghi e momenti diversi;
  • gestione della sicurezza: come gestire la responsabilità aziendale per quanto riguarda la sicurezza, rispetto alle dotazioni tecniche che potrebbero essere utilizzate anche da altre persone, la logistica del luogo di lavoro (quando è in una abitazione privata), la sicurezza dello stesso lavoratore. Valgono le stesse regole che le norme impongono sul luogo di lavoro anche a casa, tenuto conto che lo Smart Worker è un lavoratore dipendente a tutti gli effetti? Le deroghe sono raccordate con le leggi pre-esistenti? Le leggi attuali aiutano o inibiscono questa scelta. Le analisi fatte (Marco Peruzzi) del d.d.l. S. 2233-B approvato definitivamente il 10 maggio 2017 mettono in evidenza la mancanza di raccordo con il sistema normativo pre-esistente, “rilevabile su almeno tre versanti: il rapporto con l’istituto del telelavoro, l’applicabilità della normativa sui videoterminali, il coordinamento con le disposizioni in tema di orario di lavoro.”
  • Individuazione dei KPI che decretino il raggiungimento del risultato (dei giochi win-win). Quando poi non si raggiungono che si fa? Si toglie la possibilità dello smart working? Quali conflitti questo potrebbe generare?
  • Formazione: i lavoratori che si devono auto-organizzare il proprio lavoro devono essere in grado di organizzare il tempo e le task. Dovranno essere formati a farlo. Non è detto che chi lo fa bene nel proprio posto di lavoro lo faccia altrettanto bene a casa propria.
  • Chi non ha la possibilità dello Smart Working, come verrà compensato? Perché se il lavoratore ne ha un beneficio ci si mette poco a capire che chi questo beneficio non ha lo vorrà in qualche modo monetizzare o compensare con altre forme di remunerazione.

Queste sono solo alcune delle riflessioni che si possono fare sullo Smart Working e che le esperienze fatte ci suggeriscono di condividere. La consapevolezza dell’impatto delle proprie azioni è sempre un buon punto di partenza e una road map, che abbia al centro una riflessione a 360 gradi dell’azienda, è il contenitore più adatto per le riflessioni sullo Smart Working perché, come si dice spesso, dopo averlo introdotto in azienda niente sarà più come prima, un po’ come il buco nero, quando si passa nell’altra dimensione non si può ritornare indietro.

Daniela Bandera: daniela.bandera@nomesis.net


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